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L’Atlantico a remi: la gara più dura del pianeta

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Il numero delle persone che sono state nello spazio o che hanno scalato l’Everest è maggiore del numero di persone che hanno traversato l’Atlantico a remi“, recita il sito della Talisker Whisky Atlantic Challenge, l’unica gara di traversata atlantica a remi esistente, e molto  probabilmente la gara sportiva più dura del pianeta. E non ci risulta difficile crederlo.

Domenica scorsa 22 squadre, di cui due composte da sole donne, e quattro solitari sono partiti da La Gomera, pronti a remare per 2.900 miglia fino ad Antigua, dopo anni di preparazione fisica e mentale. Le barche sono lunghe circa 7,5 metri e larghe 1,8 (ovvero a bordo non si riesce nemmeno a sgranchirsi un po’ le gambe…) e in caso di scuffia si raddrizzano da sole. Sono costruite in legno, vetroresina, fibra di carbonio e kevlar e hanno solo una piccola cabina per proteggere l’equipaggio da sole, sale, vento e mare. Nella scorsa edizione solo 11 delle 16 squadre iscritte hanno completato la gara – tra rotture e problemi fisici i ritiri sono stati forzati – il team più veloce ha impiegato 41 giorni, l’ultimo arrivato 60.

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Le barche devono essere completamente autosufficienti: desalinizzatori per l’acqua, pannelli solari per dare energia alle strumentazioni elettriche, 90 giorni di provviste, medicinali e qualche portafortuna o ricordo di casa. Se le provviste finiscono, gli equipaggi possono essere riforniti (non si capisce bene come), ma verranno squalificati. A livelo di sicurezza le barche hanno GPS, un AIS, un telefono satellitare e un “tough book” (un computer portatile ultra resistente), per comunicare in caso di emergenza ma anche per lanciare tweet, post sui blog e comunicazioni varie alle famiglie.

Le regole sono semplici: nessuna assistenza esterna, titoli RYA e selezioni per tutti i partecipanti, nessuna propulsione se non quella dei remi, dello scarroccio e della deriva, nessun rifiuto gettato in mare. La parte dura, ovviamente, è quella fisica e, soprattutto, quella mentale. Se avete traversato l’atlantico a vela e vi siete lamentati della fatica, degli spazi stretti, della lunghezza dei giorni senza vedere terra, forse riuscite a immaginare lo sforzo al limite della sopportazione (e oltre) che devono (vogliono) compiere questi uomini e queste donne. Continuare a remare quando hai le vesciche sulle mani e sul viso, la pelle corrosa dal sale e dal vento, non dormi da giorni, e magari tra te e uno squalo che ti guarda c’è una paratia di vetroresina spessa qualche centimetro non è cosa da tutti…

Chi sono questi uomini e donne? Sono atleti prima di tutto, perchè un’impresa del genere arriva solo dopo anni di preparazione fisica ai massimi livelli, ma hanno tutti anche una causa “più grande” per remare. Ogni team è associato a organizzazioni umanitarie, mediche o di altro genere, per cui raccoglie fondi e donazioni. Una delle squadre è composta da quattro ex militari che hanno subito amputazioni degli arti. E uno dei solitari è un ragazzo italiano, Matteo Perucchini, 34 anni, che ha chiamato la sua barca “Sogno Atlantico”. E sono anche persone normali, perchè mentre stanno per partire per questa avventura straordinaria piangono e dicono di avere paura.

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